Il titolo di questo articolo “impariamo a respirare” sembra scritto da un pazzo (una pazza, nel mio caso).
La verità è che noi non impariamo a respirare, lo facciamo perché siamo animali, nasciamo respirando e moriamo esalando l’ultimo respiro.
“E allora cosa vorrà mai dire questa pazza!?”
Bene, saprai che quando ci arrabbiamo, quando ci emozioniamo, quando ci rilassiamo e in tantissimi altri momenti della nostra vita, modifichiamo il nostro modo di respirare.
Tratteniamo il respiro o lo acceleriamo, respiriamo profondamente o velocemente in base alla diversa situazione che ci troviamo a dover affrontare.
Stando a questa premessa, risulterà forse più chiaro cosa intendo dire quando scrivo “imparare a respirare”: significa riuscire ad adattare la nostra respirazione al contesto e alla situazione che si è creata (o che abbiano creato) attorno a noi.
Il respiro, che salvo alcuni casi specifici, andrà eseguito dal naso e non dalla bocca, è centrale in una pratica, come quella yogica, che si pone l’obiettivo, tra l’altro, di insegnarci il controllo del nostro corpo ma, soprattutto, il controllo della nostra mente e delle sue fluttuazioni.
In questo senso lo Yoga ci insegna a respirare. Nello specifico la respirazione si esprime nel quinto chakra, (Vishuddha, il chakra della gola, che ha come elemento proprio l’etere).
Una buona pratica, anche fisica, inizierà e terminerà con un esercizio di respirazione (pranayama). Questo ci permetterà di centrarci e di rilassarci in vista del movimento o della meditazione che ci apprestiamo a cominciare.
Il Pranayama è una disciplina Yoga che implica la gestione consapevole della respirazione per armonizzare corpo, mente e spirito. “Prana” rappresenta l’energia vitale, mentre “Yama” si riferisce al controllo. Il Pranayama dunque si focalizza sul dirigere e regolare l’energia vitale attraverso il respiro.
Come sempre il nostro sistema di pensiero moderno, ci fa dimenticare di prestare attenzione a ciò che non dà i suoi risultati nell’immediato; come sempre, anche nello Yoga, tendiamo a concentrarci sull’attività fisica, che però non sarà mai del tutto completa, senza un buon flusso di aria in entrata e in uscita.
Come detto la respirazione nello Yoga è fondamentale: sia nello Yoga Classico, in cui si predilige una respirazione calma e regolare, naturale direi, che impedisce alla mente di fluttuare, sia nello Hatha Yoga, che concepisce la respirazione come un modo per controllarci e, quindi, sarà importante governarla, potremmo dire forzarla, in qualche modo.
In ogni caso ignorarla non è un buon modo di praticare.
La respirazione Yoga non ha soltanto due fasi, ne ha quattro: inspirazione (Puraka), pausa a polmoni pieni (Antara kumbhaka), espirazione (Rechaka) e pausa a polmoni vuoti (Bahya kumbhaka).
È ovvio che un praticante alle prime armi non dovrà trattenersi senza respirare troppo a lungo, anzi! All’inizio le pause tra inspiro ed espiro, saranno quasi naturali, con il tempo tenteremo di allungarle e di controllarle il più possibile.
La fase di inspirazione è un momento di raccolta dell’energia che nell’espiro, grazie alle indicazioni della nostra mente, raggiungerà tutto il corpo o soltanto quella parte del corpo sulla quale intendiamo concentrarci, magari perché la sentiamo tesa o perché intendiamo stimolarla durante la pratica.
Una domanda alla quale voglio rispondere in questo articolo (che può apparentemente non centrar nulla con la respirazione) è la seguente: perché praticare Yoga al chiuso?
Bene, per rispondere andrò a scomodare gli animali ibernanti (cioè quelli che vanno in letargo). Questi animali, durante il periodo di ibernazione, tendono a ridurre significativamente il loro tasso metabolico e tutte le loro funzioni corporee per conservare energia.
Nello stato di letargia, la respirazione diventa molto lenta e il bisogno di ossigeno diminuisce. Alcuni animali in letargo possono anche interrompere completamente la loro respirazione per brevi periodi ed è dimostrato che scelgono ambienti specifici, come tane o caverne, che, con le loro condizioni atmosferiche, contribuiscono a mantenere stabile l’ambiente e la disponibilità di ossigeno.
N. C. Paul, nel suo libro “a treatise on the yoga philosophy”, ci racconta che gli antichi yogi erano soliti rinchiudersi in grotte e caverne per praticare, lo facevano per isolarsi da luce e da rumori, certo, ma anche perché in questi ambienti si modifica l’aria: cambiano i livelli di ossigeno.
Praticare in una grotta è probabilmente impossibile per la maggior parte di noi ma sarà sicuramente meglio farlo in un ambiente chiuso, perché questo faciliterà la dilatazione dei vasi sanguigni, andando a migliorare la circolazione del flusso di sangue e la conseguente ossigenazione di tutto il corpo.
Tornando alla pratica, possiamo sicuramente affermare che il controllo del respiro, ci aiuterà a muoverci con più consapevolezza e a calmare la mente, aiutandoci a lasciar andare quei pensieri che non ci servono durante la pratica e, aggiungerei, nemmeno durante la vita.
Bibliografia
Paul, N. C. (2015). A Treatise On The Yoga Philosophy. Stati Uniti: Creative Media Partners, LLC.
Wei, M., Groves, J. E., Cosi, F. (2018). La guida allo yoga della Harvard Medical School. Un programma di 8 settimane elaborato su base scientifica. Italia: Mondadori.